La mia voce sa di fiato spezzato. I miei passi sono sordi. Le mie mani, intagliando l’aria, scolpiscono pensieri. I miei occhi ridono, piangono, sentono, parlano. Comunico. Con tutto il corpo. Ciò che la natura mi ha negato, io ho imparato a inventarlo: le mie parole plastiche occupano il vuoto apparente, vibro attraverso suoni tattili.
In questa piccola stanza d’ostello mi sento forte. Sono forte. Ogni volta che infilo il mio zaino da viaggio, mi rendo conto di quanto io sia perfetta. La stanza è essenziale: letto a castello, bagno in camera; ampia finestra. Mi arrampico sul letto di sopra: dall’alto mi sembra di poter controllare tutto meglio. Mezz’ora, un’ora. Rimango sul letto, cuscino dietro la schiena. Abbraccio le mie ginocchia e continuo a fissare la porta. Prima o poi si aprirà. Non voglio farmi cogliere di sorpresa, essere spiata nella ritualità delle mie intime azioni. Ecco: si apre. Entra un ragazzo, ha il viso simpatico, mi ispira fiducia. Le sue labbra mi dicono “ciao” e io gli sorrido. Lascia il suo zaino a terra, si avvicina, mi offre la mano, che io prontamente stringo. Si chiama Marco. Io muovo la bocca, cercando di sillabare al meglio il mio nome: Anastasia. Ma puntualmente la voce muore prima ancora di nascere. Marco mi guarda perplesso e si avvicina con l’orecchio per sentire meglio. Io gli accarezzo il volto per legare il mio viso ai suoi occhi. Scuoto la testa, ridendo, in segno di dissenso. Prendo la penna e il quaderno che ho alla mia sinistra e scrivo a chiare lettere: Anastasia.
Lui mi guarda, e in quell’attimo percepisco il suo disagio, annuisce e abbozza un sorriso. China la testa, mi da le spalle, come rapito dal suo mondo, e si piega sullo zaino. Prende un libro e si stende sul letto. Impossibile ora comunicare. Mi ha tagliata fuori. Io sopra, lui sotto, lui con i suoi suoni, le sue parole e i suoi pensieri, io con i miei gesti e la mia scrittura. Mi ha scaraventata nel mio spazio sordo. Ci sono abituata, non è la prima volta che mi capita. Mi sento sola e fisso il lampadario. La luce artificiale a suo modo mi riscalda, mi è compagna, al buio tutto mi sfugge. No, non voglio. La solitudine mi martella nelle orecchie e la sento. Ho bisogno di leggere le tue parole Marco, non puoi rimanere lì, lontano da me. Il mio spazio è il tuo spazio, questa stanza ci culla, insieme. Mi metto in piedi sul letto e tocco il lampadario, facendolo oscillare. Le ombre danzano irrequiete per la stanza. Marco si affaccia dal suo letto, con la testa rivolta verso l’alto. Mi guarda, inarcando il sopracciglio, tra il perplesso e l’indignato. Io gli sorrido, mentre una lacrima mi solletica, impertinente, il viso.
Gli occhi di Marco, ora, sorridono. Si alza e si arrampica sin sul mio letto. Si siede accanto a me. Io continuo a guardarlo, ridendo. Ridiamo. Mi da un bacio sull’orecchio. È il suono più dolce che abbia mai sentito. Il mio amico ha letto la mia protesta.
So che questa notte sarà lunga e parleremo, ognuno a suo modo…
a festa dos 52...
4 mesi fa
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