sabato 28 giugno 2008

LO STRANIERO di Albert Camus



Ho rifiutato per la terza volta di ricevere il prete. Non ho niente da dirgli, non ho voglia di parlare, e dovrò comunque vederlo presto. Quel che mi interessa in questo momento è soltanto di sfuggire alla meccanica, di sapere se l'inevitabile può avere un via d'uscita. Mi hanno cambiato di cella e da questa, quando sono disteso, vedo il cielo e il cielo soltanto. Passo le mie giornate a guardare nel suo volto il degradare di colori che conduce alla notte. Sdraiato, mi passo le mani dietro la nuca e attendo. Non so quante volte mi sono chiesto se esistono esempi di condannati a morte che siano sfuggiti al meccanismo implacabile, siano scomparsi prima dell'esecuzione, abbiano rotto i cordoni di agenti.
[...]
Quello che contava allora per me era una possibilità di evasione, un salto fuori dal rito implacabile, una folle corsa che offrisse tutte le possibilità della speranza. Naturalmente questa speranza era di essere freddati all'angolo di una strada, in piena corsa, d'un colpo di rivoltella. Ma, tutto ben considerato, nulla mia autorizzava questo lusso, tutto me lo vietava, la meccanica mi riprendeva. Malgrado la mia buona volontà, non potevo accettare questa certezza insolente. Perché insomma c'era una sproporzione ridicola fra il verdetto che l'aveva creata e il suo svolgersi imperturbabile a partire dal momento in cui quel verdetto era stato pronunciato. Il fatto che la sentenza fosse stata letta alle ore venti, piuttosto che alle ore diciassette, il fatto che avrebbe potuto essere completamente diversa, che era stata deliberata da uomini che cambiano di biancheria, che era stata messa a carico di una nozione così imprecisa come il popolo francese (o tedesco, o cinese), tutto questo mi pareva proprio che diminuisse di molto la serietà di una simile decisione.Eppure ero costretto a riconoscere che, dal secondo in cui era stata presa, i suoi effetti diventavano altrettanto seri che la presenza di quel muro contro cui schiacciavo il mio corpo.
[...]
C'erano altre due cose a cui riflettevo sempre: l'alba e la domanda di grazia. Eppure cercavo di ragionare, cercavo di non pensarci più. Mi stendevo, guardavo il cielo, facevo uno sforzo per interessarmene. Il cielo diventava verde, e era la sera. Facevo ancora uno sforzo per deviare il corso dei miei pensieri. Ascoltavo il mio cuore. Non riuscivo a immaginarmi che quel piccolo rumore che mi accompagnava da tanto tempo potesse mai cessare. Io non ho mai avuto immaginazione. E tuttavia cercavo di immaginarmi un determinato secondo il cui battito di questo cuore non si sarebbe più prolungato nel mio cervello. Ma invano. C'era sempre l'alba e la mia domanda di grazia e finvo per dirmi che la cosa più ragionevole era di non farmi violenza. E' all'alba che vengono, lo sapevo. E ho passato le mie notti ad aspettare quell'alba. Non mi è mai piaciuto farmi sorprendere: quando mi succede qualcosa, preferisco essere presente. Così ho finito per non dormire che un poco durante il giorno e, lungo tutte le mie nottate, ho atteso pazientemente che la luce nascesse sul vetro del cielo. Il momento più difficile era quell'ora incerta in cui sapevo che essi operano d'abitudine. Passata la mezzanotte, attendevo e stavo in agguato. Mai il mio orecchio aveva percepito tanti rumori, distinto suoni altrettanto lievi. Devo dire del resto che ho avuto fortuna durante tutto questo periodo perché non ho mai udito dei passi. La mamma diceva che non si è mai completamente infelici. Ero d'accordo con lei nella mia prigione quando il cielo prendeva colore e una nuova giornata scivolava nella mia cella. Perché poteva darsi ugualmente che udissi dei passi e mi scoppiasse il cuore. E invece, per quanto il più lieve fruscio mi facesse balzare alla porta, per quanto, l'orecchia schiacciata contro il legno, attendessi perdutamente fino a udire il mio proprio respiro, spaventato di trovarlo rauco e così simile all'ansimare di un cane, in verità il cuore non mi scoppiava e avevo guadagnato ancora una volta ventiquattr'ore.
Durante tutto il giorno avevo la domanda di grazia. Credo di aver sfruttato il massimo possibile di quest'idea. Calcolavo gli effetti e ottenevo dalle mie riflessioni il miglior rendimento. Partivo sempre dalla supposizione peggiore: la domanda era respinta. "Ebbene allora morrò". Più presto che molti altri, evidentemente. Ma tutti sanno che la vita non val la pena di essere vissuta, e in fondo non ignoravo che importa poco morire a trent'anni oppure a settanta quando si sa bene che in tutti e due i casi altri uomini e donne vivranno e questo per migliaia di anni. Tutto era molto chiaro, insomma: ero sempre io a morire, sia che morissi subito, sia che morissi fra vent'anni. A questo punto quel che mi turbava un po' nel mio ragionamento era il vuoto terribile che sentivo in me al pensiero di vent'anni di vita non ancora vissuta.
Ma non avevo che da soffocarlo immaginando quali sarebbero stati i miei pensieri dopo vent'anni, quando mi sarei dovuto trovare in ogni modo a quel punto. Dal momento che si muore, come e quando non importa, è evidente. Dunque (...) dovevo accettare che quel ricorso fosse respinto.
A questo punto soltanto, avevo per così dire il diritto, mi davo in certo qual modo il permesso di considerare la seconda ipotesi: ero graziato. La difficoltà era che dovevo render meno violento questo slancio del cuore e del corpo che mi pungeva gli occhi di una gioia insensata. Dovevo cercare di calmare quel grido, di ridurlo alla ragione. Dovevo essere ragionevole anche in questa ipotesi, se volevo rendere plausibile la mia rassegnazione nell'altra. Quando vi riuscivo, avevo conquistato un'ora di calma.

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