venerdì 3 ottobre 2008

C’è ancora quell’invisibile filo di parole a unirci. Le prime vere parole, proferite per intimità, comprensione, complicità, animatesi da dentro, divampate nell’animo, di un’eco infinitamente dolce. E poi, d’improvviso, un voltarsi rapidi indietro e cominciare l’evento lieto e terrificante dei ricordi, che si spingono audaci nel barlume della non vita. Attendevo l’epilogo che è giunto imperioso, senza pudore, a strapparci quella fantasia costruita nel rumore del quotidiano, uno scontato epilogo fatto di rabbia, paura, insicurezza, dolore, stanchezza. Abbiamo lasciato che i sogni divenissero più reali del reale, uno scarto esistenziale nel quale non troviamo posto; abbiamo preteso che uno stralcio di giorno ci appartenesse, che mille giorni fossero nostri, che le parole fossero vere, vive, dipinti in un nulla asfissiante. Ci siamo appartenuti, e poi la follia. Ci ha investiti, illusi, infimi esseri, che strattonano pezzi di vita dalla veste lacera e impudica della realtà. Ci siamo spinti oltre la soglia, quel limite imposto per non cadere. Siamo caduti. Soffochiamo nella claustrofobia di un pozzo stretto e privo di luce. Quel filo ribelle ci sta strozzando, rendendoci solo parvenze di una totalità che non possiamo avere. È ora di destarsi, forse. È un grido sordo questo lamento che ci trasciniamo, questo bisogno d’amore che non ha volto, inespresso nella potenza di immensità. Abbiamo perso respiri, dimentichi della nostra stessa ragione d’essere. Annaspiamo. Una prima lesione. E dopo un’altra. Finché non giunge lo strappo,violento. E dimentichiamo lentamente chi eravamo, i nostri sorrisi, i nostri pianti, i nostri giochi, i nostri segreti, la nostra dolcezza, i nostri nasi, le nostre labbra, i nostri occhi…

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